E’ di certo un po’ saccente ricordare che la democrazia è la forma più alta di gestione del potere. L’hanno inventata i greci un bel mucchio di anni fa anche se, a tutt’oggi, solo una parte del genere umano la pratica rispettando il suo significato. Anzi spesso la si applica in modo distorto mantenendo, di fatto, la facciata più che la sostanza.
A volte, poi, c’è o viene invocata, addirittura, la sua applicazione letterale arrivando ad una specie di “bulimia democratica” tale da ottenere il risultato opposto a quello immaginato o prefissato. E’ insomma evidente che la democrazia applicata nell’agorà ateniese aveva una sua logica legata allo spazio limitato e, soprattutto, al numero limitato di persone che vi si riunivano per prendere decisioni. Altro è gestire “democraticamente” il potere in un territorio particolarmente vasto e con milioni di persone. Il problema più consistente è la ricerca di una rappresentanza che possa corrispondere al meglio alla vastità dei territori ed alla consistenza numerica degli abitanti di essi.
Quando i “padri fondatori” della nostra democrazia post bellica si riunirono per creare l’impalcatura della nuova Italia post fascista e, soprattutto, moderna, si posero con grande serietà questo interrogativo. In verità c’era anche il grande problema di come articolare le “rappresentanze” tenendo conto che durante il ventennio fascista l’architrave del potere era nella “forma democratica” tipica di un regime che deve avere tutte le leve del potere e, attraverso esso, poter controllare l’intera società.
I “padri fondatori”, quindi si preoccuparono di creare articolazioni che potessero tenere conto della variegata società italiana, dando respiro anche ad un progressivo decentramento dell’architrave pubblico.
Il Parlamento, nelle sue due espressioni di Camera e Senato, venne immaginato con un consistente, forse troppo alto, numero di rappresentanti proprio con l’obiettivo di dare voce a “tutte le Italie”, comprese le cosiddette minoranze linguistiche. L’altissimo numero di Comuni retaggio di una storia caratterizzata proprio dai “campanili”, l’alto numero di Province, l’altrettanto vasto numero di Regioni, avrebbero dovuto rappresentare la capacità di un popolo di autogovernarsi.
I “tempi moderni”, le esigenze sempre più pressanti di sani bilanci di gestione e, soprattutto, di non sprechi, ci hanno consigliato di rivedere questa struttura di certo eccessiva. Il raffronto con la struttura gestionale del nostro Ordine professionale è immediato e parallelo. Ma all’inizio degli anni Sessanta, quindi tutto sommato a ridosso del Dopoguerra, Guido Gonella ed i suoi collaboratori pensarono ad una autogestione di tipo territoriale con governi regionali ed interregionali e con un Consiglio Nazionale che rispondesse alla composizione della categoria di quel tempo. Chi avrebbe mai immaginato l’esplosione delle radio e delle televisioni territoriali o, successivamente, del grande “villaggio globale” di internet? Chi avrebbe mai immaginato che la rappresentanza nel Consiglio Nazionale si sarebbe più che raddoppiata raggiungendo i livelli attuali?
I tanti tentennamenti della categoria nonché la scarsa attenzione del potere politico a cui spetta modificare questi parametri hanno portato, come spesso accade in Italia, ad una situazione diametralmente opposta. Passare da un CNOG bulimico di democrazia ad una specie di Consiglio di amministrazione è un errore logico prima ancora che politico. Democrazia e rappresentanza devono andare a braccetto se si punta a gestire in modo equilibrato. I trentasei membri ipotizzati in prima lettura alla Camera potrebbero sembrare un numero sufficiente a svolgere le funzioni che la legge assegna al CNOG. In realtà disattendono proprio il principio dell’equa rappresentanza, di fatto mettendo in mano alle grandi regioni – Lombardia e Lazio in primis – un Consiglio che per definizione dovrebbe essere nazionale e quindi rappresentativo di tutto il Paese.
In quanto componente della Commissione che due anni fa formulò delle “linee di riforma” ritengo che quanto venne ipotizzato allora e che mi vide tra i presentatori di una proposta che nasceva dalla idea di coniugare “democrazia e rappresentanza”, un numero di consiglieri nazionali di circa 70 membri (oscillante fra i 68 ed i 72) potrebbe soddisfare questa esigenza e dare a “tutte le Italie” di cui è composta la nostra realtà adeguata possibilità di presenza democratica.
Evidenzio che rispetto all’attuale composizione del CNOG si tratterebbe di una robusta riduzione, superiore al cinquanta per cento.