Con il romanzo autobiografico “Territorio comanche” del 1994, lo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte ha dato l’addio alla professione di reporter di guerra, esercitata per più di vent’anni in tutti i punti caldi del mondo, prima di dedicarsi definitivamente a una fortunata attività di romanziere (“Il club Dumas”, “Il maestro di scherma”, “La tavola fiamminga” e “Il cecchino paziente” del 2014).
Le pagine di “Territorio comanche”, che alternano toni di estremo realismo a sfumature di ironia e di tenerezza, assumono così il carattere di un vero testamento spirituale: “Da Troia a Mostar o a Serajevo si tratta sempre della stessa guerra”. I tanti personaggi che si muovono intorno ai protagonisti, riflettono il carattere drammatico e universale di ogni conflitto.
Lo scenario del libro è l’ex-Jugoslavia, anni Novanta. È in corso un’offensiva tra le parti contrapposte. Un ponte pare che stia per saltare e una troupe televisiva spagnola è sul posto. Il giornalista e l’operatore riusciranno a riprenderlo mentre crolla e a trasmettere il filmato in Spagna, per il giornale della sera? Saranno abili e fortunati da sopravvivere ai rischi che li circondano?
Il vero protagonista di questa storia è il reporter, con i suoi eroismi, le sue piccolezze, le sue esperienze: come capire dove scoppierà una granata o come sottrarsi a uno scontro troppo pericoloso.
Scrive Pérez-Reverte: “Per un reporter in guerra, Territorio comanche è il posto dove l’istinto ti dice di fermare l’auto e fare marcia indietro. Il posto dove le strade sono deserte e le case sono rovine bruciate, dove sembra sempre l’imbrunire e cammini stretto ai muri verso gli spari che risuonano in lontananza, ascoltando il rumore dei tuoi passi sui vetri rotti. In guerra, il suolo è sempre coperto di vetri rotti. Territorio comanche è là dove li senti scricchiolare sotto i tuoi scarponi e, anche se non vedi nessuno, sai che ti stanno guardando. Là dove non vedi i fucili, ma i fucili vedono te”.