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Quando i giornalisti fanno la storia

26/02/2015
Qual è stato il ruolo dei giornalisti nella storia italiana? Un ruolo di primo attore o di comprimario? Di mattatore o di “capo claque”? E nello svolgersi delle tappe più importanti come si sono comportati i grandi cronisti?
 Ultima domanda. E adesso che la nostra barchetta – quella dell’editoria – traballa per i colpi della crisi e della rivoluzione digitale, come siamo messi? Contiamo qualcosa o siamo solo dei sopravvissuti a un mondo che non c’è più?
Tranquilli, non vogliamo inquietarvi con il solito pezzo su dove sta andando il giornalismo. Tanto dove va lo capiremo solo quando sarà arrivato. E tutti diranno che l’avevano previsto.  Per carità. Ci conosciamo.  Qui vogliamo solo parlarvi di un bel libro, stuzzicante e ben scritto dal collega Pier Luigi Vercesi per la Sellerio editore, che nel titolo dice già tutto: “Ne ammazza più la penna. Storie d’Italia vissute nelle redazioni dei giornali”.
Vercesi, direttore di “Sette”, settimanale del “Corriere della Sera”, parte dalla caduta di Napoleone per ricordarci che la famosa verità dei fatti non il nostro forte. E che quasi sempre, per convenienza o necessità, la modifichiamo a nostro piacere. Come fanno nel 1815  i giornalisti de “il Moniteur” una gazzetta francese che per la fuga di Napoleone dall’Elba titolano:
“Il mostro è fuggito dal luogo dell’esilio!”A mano a mano che il “mostro” si avvicina  il giornale cambia però  la musica. Infatti titola:
 “Bonaparte avanza a tappe forzate, ma è impossibile che arrivi a Parigi”. Ma quando poi ci arriva il giornale scrive: Sua maestà l’imperatore è arrivato alle Tuileries. Niente può superare la gioia universale”. Ma che bella giravolta, complimenti!
Siamo così. A volte tappetini del potere, in altre grilli parlanti. Pompieri e incendiari. Normalizzatori e fustigatori.  L’equilibrio non  è il nostro forte. Anche  per le firme più celebri. Ugo Foscolo, scrive Vercesi, solo per un soffio non andò a libro paga degli austriaci. E se non fosse stato per Federico Confalonieri il poeta dei Sepolcri  avrebbe messo il suo estro giornalistico al servizio di Metternich.
E’ una bella storia, quella di Vercesi, perché non è solo una storia di giornalisti, ma di uomini, con le loro forze e le loro debolezze, coi loro talenti e i le loro meschinità. Ogni tanto, ma raramente, ci sono anche delle “schiene diritte”. Una tra tutte quella di Piero Gobetti ucciso nel 1925 dalle  botte dei fascisti dopo averli definiti  “Movimento plebeo e liberticida”.
Poi ci sono i grandi funamboli, i prestigiatori della parola e del protagonismo. Primo fra tutti Gabriele D’Annunzio, capace come sempre di stupire. Quindi  Benito Mussolini, che prima di far indossare la camicia nera agli italiani, è maestro  elementare e  poi direttore del Popolo d’Italia. Il futuro duce aveva grande fiuto e senso della notizia. Alla fine della Grande Guerra, a corto di fondi e fiutando l’aria,  cambia il sottotitolo della testata: non più “Quotidiano socialista, ma “organo dei combattenti e dei produttori”.
E Leo Longanesi, genio dell’editoria e talentuoso inventore di slogan e aforismi? E’ lui a inventare lo slogan “Mussolini ha sempre ragione!” E a prendere a schiaffi il maestro Toscanini perchè, prima di un concerto, si rifiuta di far suonare “Giovinezza”.
Longanesi, come tanti altri illustri colleghi, è abilissimo a salire rapidamente sul nuovo carro dell’antifascismo già dal 25 luglio 1943, quando Mussolini è messo in minoranza dal Gran Consiglio. Ma  Longanesi non è una eccezione. Tante altre prestigiose  penne si erano accodate senza problemi al servizio del regime.
“Se tra  loro ci fossero stati dei dissimulatori”, scrive Vercesi “ Mussolini se ne sarebbe sicuramente accorto. Ma non ce n’erano. Era sulla loro indifferenza morale che  faceva conto Mussolini. Lui li teneva al guinzaglio, loro incassavano compensi generosi...”
Si potrebbe andare avanti. Ma il quadro è desolante. Tanti topolini dietro il grande pifferaio – il duce- di una fabbrica del consenso che raccontava di un mondo inventato. Senza cronaca nera, dove non piove e tira vento, dove tutto va  bene, anche quando il mondo sta precipitando nell’abisso.
Il libro di Vercesi, dopo la bufera della seconda guerra, arriva fino ai Sessanta. Quando i giornali, grazie anche all’arrivo di Enrico Mattei e alla nascita  del Giorno, cominciano a sentire che l’Italia sta cambiando. Che i soldi ricominciano a girare, e che  la gente ha voglia di tornare a divertirsi con il Festival di Sanremo e le prime trasmissioni televisive e i quiz di Milke Bongiorno.
Un’altra epoca, tutta da raccontare. Come fecero Camilla Cederna, Giorgio Bocca e tanti altri celebri e meno celebri colleghi che entrano di slancio in quell’Italia che corre sempre più veloce. La storia finisce qui. Con una sensazione amara: che anche nel giornalismo, abbiamo perso delle buone occasioni per essere migliori.
 
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Pier Luigi Vercesi
"Ne ammazza più la penna. Storia d'Italia vissuta nelle redazioni dei giornali"
Sellerio editore Palermo
Prezzo: 18 euro